I prati di Soleschiano
(questi si possono ammirare lungo la strada su cui si trova casa Percoto):
Un modo nuovo di guardarsi intorno…
Quando noi parliamo di ‘tradizioni’ automaticamente facciamo riferimento a un qualcosa che è al di fuori della nostra vita di ogni giorno e che, tutto sommato, sentiamo come un’espressione
popolare bella da vedere e pittoresca, anche se priva di una reale importanza e di un significato profondo. Ai tempi di Caterina, invece, il Licôf, la Sçhiarnete, Lis cidulis erano momenti che
facevano realmente parte della vita comunitaria e dell’immaginario collettivo. Erano spesso momenti di festa e quindi ‘speciali’ ma non venivano minimamente percepiti come una semplice
rappresentazione. Non poteva esserci un anno senza il lancio delle rotelle infuocate (Lis cidulis) come non si poteva concludere la stagione del raccolto senza il pranzo con tutti i sotans (il Licôf).
Nei racconti della Percoto troviamo abbastanza frequentemente descrizioni di tradizioni popolari friulane e carniche. Dobbiamo pensare, però, che quando l’autrice scrive il folklore come scienza in Italia non è ancora nato. La Bibliografia delle tradizioni popolari di Giuseppe Pitrè, considerato il capostipite degli studi folkloristici in Italia, infatti, arriverà solo nel 1894. In Friuli, la grande opera di Valentino Ostermann La vita in Friuli verrà data alle stampe nello stesso anno, preceduta solo dalle raccolte di proverbi friulani (1876) e delle villotte friulane (1892).
Se facciamo riferimento all’interesse delle classi colte verso quelle più umili, invece, dobbiamo dire che questo stava già muovendo i suoi primi passi dalla fine degli anni ’30 sia in ambito intellettuale che letterario (nasce proprio in questo periodo la Letteratura Rusticale), anche se un vero coinvolgimento nelle problematiche e negli ‘umili’ visti come persone dotate di volontà e
sentimenti sarà ancora distante a venire.
Come per molti altri aspetti, anche nell’ambito del folklore la produzione letteraria di Caterina Percoto trova uno spazio a sé stante, assolutamente originale e capace di offrire soluzioni inedite
che spesso, come interpretazione e valenza simbolica, saranno capaci addirittura di superare i risultati dei primi studi di folklore del Pitrè…
Le novelle e il folklore
Le novelle in cui la Percoto scrive delle tradizioni popolari sono: ‘Lis cidulis’, ‘Il licôf’, ‘Il pane dei morti’, ‘La festa dei pastori’ e ‘La sçhiarnete’. Una prima novità assoluta è quella di mettere questi nomi come titoli per le singole novelle: il riferimento, infatti, è sicuramente comprensibile per un pubblico friulano ma assolutamente nuovo e sconosciuto per il resto dei lettori. Non sbaglieremmo di molto se giudicassimo questa come un’idea decisamente accattivante per suscitare subito curiosità e desiderio di leggere oltre. L’autrice, comunque, si premura di accontentare subito i suoi lettori mettendo spesso già all’inizio della novella la presentazione della tradizione popolare. L’autrice, però, non si limita a descrivere quello che succede in modo asettico ma dipinge quadri splendidi che ritraggono i paesani proprio mentre prendono parte e danno vita a queste tradizioni. Questi momenti, inoltre, segnano il punto di partenza della storia narrata diventando così intrinsecamente legati alla realtà dei personaggi. Qui la Percoto supera la narrativa campagnola e i primi studi di folklore che si limitavano unicamente a trascrivere testi di canti o componimenti: qui possiamo proprio dire che la nostra autrice muove i primi, timidi passi verso quella che più tardi diverrà l’antropologia culturale…
Lis Cidulis – Il lancio de lis cidulis (dette anche cidulas, cidules, cidulos o piruläs) è un’antica usanza della Carnia che coinvolge come attori i ragazzi coscritti nell’anno. Questi, una volta raggiunto un luogo alto e ben visibile al paese, accendono un fuoco con il quale infiammano delle rotelle di legno che poi lanciano verso il paese cantando una filastrocca benaugurante o umoristica che si riferisce a una coppia reale o inventata, oppure conosciuta ma non ‘ufficiale’ (per motivi di sicurezza, adesso le rotelle infuocate vengono spesso sostituite con fuochi d’artificio). Lis cidulis possono anche essere lanciate pronunciando il nome delle ragazze del paese: le varianti, ovviamente, sono veramente tante. La novella percotiana de ‘Lis cidulis’ si apre con il protagonista, Giacomo, che rientra ad Arta (oggi Arta Terme), suo paese natale, proprio nella sera del lancio delle rotelle. Il ragazzo è emozionato sia nel rivedere le sue montagne che nel pensare alla sorpresa che avranno tutti i paesani quando, lanciata la rotella dedicata alla sua amata, lo vedranno arrivare sparando con le sue pistole ben cariche e pieno di allegria. Il lettore viene accompagnato a vivere la tradizione prima condividendo il momento con i coscritti e i loro piccoli battibecchi e poi attraverso i mille pensieri di Giacomo, al suo immaginare la faccia dei suoi amici a vederlo comparire così e al batticuore che avrà quando finalmente sentirà il nome della sua amatissima Rosa, celebrato da tutti… si da il via alla festa, le girelle volano nel cielo: tutte le ragazze sono nominate, una dopo l’altra, con mille scherzi e sottintesi, ma il nome della Rosa non arriva…. Che cosa sarà successo? Sarà morta? Andata in un altro paese o peggio sarà già maritata?
Da questa scena splendida comincerà poi la storia di Giacomo e Rosa, alla quale si intreccerà anche quella di Massimina, una giovane ragazza dell’alta borghesia venuta in Carnia per rimettersi in salute dopo una grave malattia… Che differenza dalle tante pagine di canti riportati in modo pragmatico dai primi studiosi di folklore o dalle usanze descritte in modo scientifico che sarebbero state pubblicate di li a poco…
Il licôf – Il licôf era il pranzo che il padrone delle terre offriva ai capofamiglia alla fine del periodo del raccolto. Nella novella omonima, fatto straordinario è che il possidente non è un uomo ma
bensì una donna, la bellissima Contessa Ardemia. Questa, allontanata dall’alta società della città a causa del suo divorzio, ritrova in campagna la sua dimensione e, tra le battute di caccia e i lavori dei campi, si ricostruisce una vita piena e appagante. Pare che la Percoto sia stata il primo autore nella letteratura italiana a introdurre non solo una donna divorziata come personaggio ma anche una donna capace di trovare la sua vita al di fuori del matrimonio. Anche in questa novella, il lettore si trova coinvolto in prima persona nel licôf grazie alle minute descrizioni dei partecipanti,
dei loro discorsi e delle loro risate. Ma la tradizione anche qui diventa il punto di partenza per la storia e soprattutto per sviluppare un tema molto caro alla Percoto: le donne. Al licôf organizzato
dalla contessa, infatti, non partecipano solo gli uomini (come voleva la tradizione) ma, per suo volere, anche le loro mogli. A parlare di questa grande novità è proprio il vecchio della comunità, il
signor Giovanni, che in modo molto schietto descrive le sue iniziali perplessità sull’iniziativa (‘gli pareva una novità formidabile, quasi un sacrilegio’) ma il suo lento ricredersi alla vista dell’armonia e della bellezza della festa. Anzi, alla fine dà perfino ragione all’Ardemia dicendo che una festa non sarebbe stata completa senza l’amabile cicaleccio delle loro donne…
La festa dei pastori – con questa novella siamo proprio nei prati di Soleschiano. La novella non si riferisce ad una tradizione specifica come il licôf o Lis Cidulis ma a una consuetudine dei pastori
legata al ciclo delle stagioni e dei lavori campestri che consisteva in una festa danzante tenuta di solito nella prima domenica di maggio. L’evento ci viene presentato dall’autrice descrivendo prima
i gruppi di persone, con vari personaggi seduti chi sui prati e chi sotto gli alberi, che si godono la musica della piccola orchestrina, gustando varie prelibatezze preparate per l’occasione: la Percoto parla dei colori dei vestiti, dei piccoli vezzi delle ragazze e degli atteggiamenti degli uomini, fieri con la loro pipa o con il sigaro. L’aria è fresca e profumata, la natura amica e dolcissima nel suo guardare al tepore dell’estate che sta per arrivare. Al centro della festa c’è il tavolato con tutti i giovani che ballano, felici e allegri. La descrizione è bellissima: ci sono le ragazze con le guance rosse dal tanto ballare, quelle più timide che guardano ma vorrebbero tanto lasciarsi andare alle danze, i ragazzi più forti e più minuti, attenti a trovarsi la ballerina più bella… In questo quadro vivo e pieno di luce, c’è però un gruppo a sé stante composto da alcuni giovani laureati e dal medico del paese. Questi, dopo aver pranzato, si sono recati alla festa per passare alcune ore all’aria aperta e godere della musica e della compagnia. I giovani non conoscono le dinamiche della comunità e, seguendo il loro gusto cittadino, indicano come le più belle le ragazze più minute e discrete. E da qui inizia la storia: il medico, ormai da anni in paese, spiega loro che in verità quelle non sono le più apprezzate perché in campagna valgono la salute e il corpo robusto e forte. Tra le tante, indica una ragazza bella grassotta che si da arie da grande bellezza: ‘quella vedi è la più ambita’ perché una moglie, in campagna, serve per lavorare e fare figli. I ‘contadini destinati alla fatica calcolano la bellezza in relazione ai propri bisogni. Buoni gombiti e buone spalle sono per essi la migliore attrattiva’… ma c’è di più: tutti i giovani si aspettano di vedere la preferita del dottore… sarà gracile e delicata oppure forte e ben pasciuta?
La sçhiarnete – La sçhiarnete era un’usanza che si teneva ogni sabato di maggio: i protagonisti erano i coscritti dell’anno che, andando di paese in paese, lasciavano davanti alle case delle
ragazze dei fiori di campo. Ogni fiore aveva un suo significato e queste notti, per le ragazze, erano momenti di grande apprensione perché rendevano pubblico il giudizio del paese nei loro confronti. La Percoto stessa, nella novella che prende il nome dalla tradizione, scrive che ‘non v’è ragazza che in quelle notti del maggio ardisca abbandonarsi tranquillamente al riposo. Stanno all’erta e appena allontanati i giovani, escono tacite a spiare ogni cosa, e se tra i fiori possono rinvenire il serpe temuto, cautamente lo sbrigano’. Anche ne ‘La sçhiarnete’, l’autrice comincia il racconto proprio con la descrizione dei ragazzi che in una notte di luna, tra canti e battute, vanno ‘di porta in porta’ a lasciare il loro verdetto. Il lettore può assaporare la bellezza del momento attraverso i dialoghi dei ragazzi e può tastare con mano la sapienza contadina nel significato di ogni singolo fiore: le spighe di segala significano superbia, il cardo la mancanza di sentimenti, il papavero lacrime… ma ovviamente la Percoto va oltre la semplice descrizione, facendo vedere come la scelta dei fiori debba anche confrontarsi con quelli che sono gli equilibri sociali interni al paese, anche tra i vari gruppi di ragazzi di paesi diversi. C’è inoltre anche un personaggio femminile, la Tina, che aspetta con ansia che il suo Giorgio le lasci sull’uscio un segno d’amore e che invece si ritrova ad essere il motivo principale per una grandissima zuffa…
La descrizione degli eventi e della tradizione occupa diverse pagine che sono sicuramente tra le più belle e le più emozionanti di tutta la produzione letteraria di Caterina: qui troviamo ritmo, colore, intensità, splendide descrizioni di stati d’animo, gioie e paure. Bellissimi sono inoltre i vari cambi di scena (dal campo alla casetta della ragazza, dalla piazza alla ricerca dei fiori tra le piante di basilico) che rendono poliedrico e coinvolgente tutto il racconto.
La bellezza delle villotte – Nel 2008, il Comune di Udine assieme alla Biblioteca Civica ‘Joppi’, hanno dato alle stampe un volume prezioso dal titolo Caterina Percoto e l’Ottocento. Tra i vari
autori, il prof. Gian Paolo Gri dell’Università degli Studi di Udine ha fatto una piccola trattazione molto interessante su una villotta, riportata dalla Percoto nella sua novella ‘I gamberi’. Nel contributo, l’autore spiega in modo esemplare come l’autrice si pone nei confronti delle tradizioni popolari e di come riesca a dare vita vera a quanto scrive. Nella novella, la villotta non è riportata
in modo statico, come saranno soliti fare gli studiosi di folklore annotando solo le parole dei canti, ma viene inserita nel racconto. Nella scena de ‘I gamberi’, le ragazze del paese si dividono in due
cori che si rispondono l’un latro, rendendoci partecipi della gioiosità e della partecipazione del momento, oltre che dello scherzo fatto al povero Valentino (Tinut). Il primo gruppo comincia:
“E Tinut all’è un biel zovin, che al sa ben puartà il chiapiel
Teresine è innamorade, se no foss nome par chel”
Alla risposta del coro contrario pronte tornavano:
“E Tinut all’è un biel zovin / che discorri a noll’occor
Voli neri bocchie dolce / fatte a pueste par l’amor”
Replicavano le altre strascinate anch’esse dalla corrente:
“E Taresie è rizzotine / morettine di color
Voli neri bocchie dolce / fatte a pueste par l’amor”
Quando una volta uscirono:
“E Tinut all’è un biel zovin / ma l’ha un poc dal berechin
L’ha bussade Teresine / col tornave dal mulin”
Interessante è anche notare come anche i canti fossero, ai tempi della Percoto, un modo per comunicare che possiamo definire molto ‘sicuro’ perché inserisce il singolo all’interno di un gruppo che diventa il vero protagonista (e responsabile) del messaggio.
> Letture per il tema Caterina Percoto e il folklore
Dalla novella ‘La sçhiarnete’ (pagina 558-559)
C’è nel paese un’antica usanza. Ogni sabato di maggio s’uniscono così in brigate e girano la notte d’uno in altro villaggio cantando i loro strambotti, e dinanzi alla dimora delle giovani da marito,
depongono, spargono od intrecciano in vario modo rami, erbe e ghirlande che da tempo immemorabile hanno un significato generalmente conosciuto. Cotesta costumanza, che con voce
friulana dicono Sçhiarnete, riesce talvolta un omaggio, e l’ambiscono ed è il più desiderato dei premi; più spesso però la lorde va frammista a qualche biasimo terribile, sicché non v’è ragazza
che in quelle notti del maggio ardisca abbandonarsi tranquillamente al riposo. Stanno all’erta e appena allontanati i giovani, escono tacite a spiare ogni cosa, e se tra i fiori possono rinvenire il
serpe temuto, cautamente lo sbrigano. Talvolta gli amanti e i fratelli son essi che fanno la guardia, ma i cori dei cantanti passano e ripassano, ed è tanta la loro longanime accortezza, che all’alba le
fanciulle si trovano quasi sempre giudicate. Sul passo della Manganizza già tornavano intanto alcuni colle nuove provviste. Erano mazzi di papaveri, rami di tremarella, spiche di segala, bacche
di ligustri, fiordalisi, coronille, pervinche, viole del pensiero, una quantità di fiori campestri e d’erbe di ogni fatta, perfino l’ortica e l’aborrita cuscuta devastatrice dei prati. Le mettevano con
ordine in alcuni panieri, e i tre o quattro che parevano caporioni dell’impresa andavano discutendo fra loro i meriti delle ragazze del vicino villaggio.
– Ecco qua una bella frasca di pioppo per la Tinuccia – diceva l’un dessi. – E anche queste spiche di segala, ch’ella è superba come un lucifero.
– La segala, amico caro, fa di tenerla per la figliuola di mastro Antonio, la quale non ha in testa che fumi, e sciala la domenica a uso dama, mentre non sa filarsi nemmeno la camicia.
– Ehi! Oseresti farti protettore della Tina? – chiedeva in tono corrucciato un ultimo disceso allora dall’argine del torrentello, dov’era stato a tagliare un gambo di irsuti cardi.
– Io, vedi, porto proprio a lei questi bei fiori colore di porpora che guai a chi li tocca!
– Che diaccine vai tu bestemmiando di proteggere la Tina? Se l’ho con colei forse più che tutti voialtri dopo il brutto tiro ch’ella ha giuocato a quella pover’anima dell’Armellino.
Vorrei foderarle la porta, la finestra e l’albero che le sta di contro di ortiche, di triboli e d’ogni mala erbaccia che Dio s’abbia creato nella sua collera. Ma volete fare le cose senza senso? Chi di voi può negare ch’ella non sia bella?
– Bella e modesta come la Madonna annunziata, ma cattiva…
– Intelligente, laboriosa, con un fare tutto melato che t’incanta…
– Hai ragione Giacomino, le spine e l’assenzio non le vanno, ma non ha cuore; mettiamogli il cardo.
– Aspettate, quest’è una ghirlanda di tremerella…
– Va bene, la tremerella volta le foglie al minimo soffio. Or bianco e or verde, or dell’Armellino e ora di Giorgio.
Dalla novella ‘La festa dei pastori’ (pagina 206-207)
Ballavano sui prati di Soleschiano. Avevano piantato il tavolato sulla sponda sinistra del torrente all’ombra dei pioppi che fanno argine alle acque. Quella vasta prateria, che a guisa di ventaglio si stende tra Nadisone e la Torre, era tutta seminata di gente, che in ogni direzione solcandola convenivano al luogo della festa. Or capitava una carretta tirata da muli, da cui smontavano un paio di leggiadre mugnaie che aggiustandosi la gonna, il grembialino di seta, i tremoli delle trecce, a forza di gombiti si facevano largo tra la calca. Or vedevi venire su pel prato una compagnia di ragazzette che si davano il braccio: correvano, e il bianco de’ loro ampi fazzoletti da testa, e i vivi colori di quelli da colle te le facevano scorgere una buona pezza lontane. Da un’altra parte raccolti
in brigatelle venivano i giovinotti coi cappelli guarniti di un fiore o di una penna di pavone, colle calze azzurre slacciate un po’ arrotolate intorno al collo del piede, mostravano la gamba robusta
velata di pelo, e pronta a slanciarsi dietro la facile armonia del Valzer. Taluni canterellavano, e allungando il collo al disopra della folla guardavano se ancora fosse venuta la loro amorosa.
Dalla novella ‘La festa dei pastori’ (pagina 209-210)
– Guarda – diceva uno di essi -, bella ragazzina quella dalla pezzuola colore scarlatto che s’è lasciata cadere dalla testa il fazzoletto, onde mostrare i tanti tremoli che ha nelle treccie.
– E’ la figlia d’un ricco affittaiuolo che abita in quella casuccia bianca che vedi là nella terza delle colline che ci stanno dirimpetto – rispondeva il dottore.
– Bellina in verità – notava un altro. – Ma non sa ballare. Vedi il modo sgraziato di portare la persona! E poi come butta le gambe!
– Effetto, mio caro, dell’essere avvezza a saltare pei colli.
– E l’altra, che balla con quel mascalzone che fa pompa del moccichino ricamato che s’è cinto attraverso la vita..?
– Una mugnaia.
– Io vorrei che ballassero quelle due là che si bisbigliano alle orecchie; quelle due care pettegole dai ricciolini minuti minuti e dalla vita mingherlina; che stanno lì dappresso a quella grassoccia che
ha scritto sul viso la pretesa di essere bella, ma che non lo è niente affatto.
– Quella, vedi – diceva il dottore -, ha nome di bellissima, mentre le altre due non sono contate un’acca. I contadini destinati alla fatica calcolano la bellezza in relazione ai loro bisogni. Buoni
gombiti e buone spalle sono per essi la migliore attrattiva, e ti prenderebbero, io credo, una donna a peso.
– Infatti – osservava l’altro -, quelle che qui ballano non sono per nessun conto le migliori. Io vedo là nella calca spuntare dei visetti da angelo che allungano il collo per desiderio di far quattro salti,
e cotesti villanzoni passano loro dappresso senza neanche guardarle, mentre le regina della festa sono due o tre madame pataffie ben grasse e ben rubiconde, tutte ansanti e grondanti di sudore.
Dalla novella ‘Lis cidulis’ (pagina 5-6)
Tra quei monti vige un antico costume. La sera precedente a un di solenne, alcuni giovinetti del villaggio ascendono la montagna, piantano a lor dinanzi un impalcato e tagliate di legno resinoso
delle rotelle a forma di stella, le conficcano ad un palo, indi danno lor fuoco e le girano, le girano finchè sieno bene ardenti, poi battono d’un gran colpo il palo sulla panca, e le fanno scivolar giù a
salti per la montagna consacrandole al nome delle giovinette del paese. A’ piedi del monte vi è un’altra turba di garzoni, che stan pronti con armi da fuoco per festeggiare a chi più può il nome
della propria amorosa.
Dalla corrispondenza con Carlo Tenca (16 gennio 1858)
Vi mando una tradizione friulana: è in stile faceto, e di questo genere sulla bocca del nostro popolo ne corrono infinite. Sono la sua sapienza. Se volete filosofarci sopra, fatelo voi, perché io
certamente nol saprei. Non è la mia parte. Io raccolgo volentieri i sassolini: a voi l’edificio; ma ricordatevi di far presto perché io non custodisco le cose mie, dovreste saperlo. Di questi
scritarelli, ne ho gittati già diversi a giornali di Torino, e uno, una volta alla Donna di Genova che mi ha fatto ridere a vedere come avevano spropositatamente stampato la parte in dialetto. Anche al Valussi, or saranno un cinque anni, gliene avevo dati non so quanti, tra quali uno dei due che voi ora tenete, ed e’ si proponeva d’inserirli in un suo futuro Almanacco Friulano che aveva ideato e
che poi non comparve: ora e’ sono stati pubblicati.
Dalla novella ‘La fila’ (pagine261-262)
Hai mai tu veduto uno di questi notturni convegni che i contadini chiamano File e che, se mal non mi appongo, potrebbero servire di rustico pendant alle profumate soirées dei vostri eleganti
salons? Così nella capitale come nel remoto villaggio sono questi i centri dove si spande il seme della parola e germina nelle anime i suoi frutti di bene e spesso anche quelli del male. I ricchi e i
poveri figliouli d’Adamo vi convergono per motivi quasi eguali. Trovarsi in bona compagnia, fuggire il freddo e la noia delle lunghe notti invernali, libare qualche sorso di gentile e rustico amore… Solo che qui, invece delle stufe, delle costose mobiglie, dei serici tappeti, dello sfarzo degli abiti e dello splendore dei doppieri, non ti si presenta che una povera stalla riscaldata dall’alito degli animali, e una turba di gente rozzamente vestita, rozzamente adagiata su fasci di stoppie in mezzo al fieno, rischiarata dalla luce rossastra di qualche fanale appeso alle travi; e v’è anche la differenza, che per cianciare qui non tengono le mani inerti nei guanti olezzanti, o nei manicotti d’ermellino; ma le donne le adoperano a tirar la chioma alle loro conocchie, e gli uomini lavorano qualche paio di zoccoli, o impagliano una sedia, o col coltellino cuoprono d’intagli e ghirigori qualche utensile destinato ad amata persona. Gruppi fantastici, mosse svariate ed armoniche, graziosi effetti di lume ti fanno balzare all’occhio più di una forma squisita ed improntata di quella ingenua bellezza che potrebbe tentare il pennello dell’artista forse più delle adorne e lisciate celebrità delle vostre sale, dove il costume straniato dalle tiranniche leggi della moda, e l’artificioso e il convenzionale sono spesso morte sicura del bello. Oh se l’istruzione, deposto il cinico suo manto e le burbanze dogmatiche, si degnasse di penetrare inosservata tra questa povera gente! Gli è un terreno vergine ed assetato del bene che darebbe il cento per uno. Ma chi ci pensa? Invece i discorsi fatti a caso e il bisogno di pascere di qualche cibo dilettevole le anime curiose e giovinette, spesso getta la malizia nelle generazioni passate a germogliare con danno funesto nelle avvenire.
Dalla novella ‘Il licôf’ (pag. 165-166)
In molti luoghi del Friuli esiste un’antica costumanza, per cui, sul finire dell’autunno, dopo terminata la raccolta e fatto i conti ai coloni, il padrone invita a pranzo ogni capo di famiglia a lui
soggetta; e questo banchetto si chiama Licôf. Ora l’Ardemia aveva pensato di dare in quell’anno questo Licôf con tutta la solennità possibile; e poiché ella era una donna aveva invitato non
solamente tutti i capi di famiglia tra i suoi affitaiuoli, ma anche tutte le padrone di casa. Nella sua bizzarra testolina aveva divisato di dare con ciò un esempio, per cui tra i contadini sparisse quel
brutto costume che vuole escluse le donne dalla mensa de’ loro mariti, e le condanna a mangiare in disparte o in un cantuccio del focolare, perfino nei giorni solenni di nozze e di battesimo. Aveva
fatto apparecchiare dei regalucci che intendeva dispensare sul fine del pranzo a tutti gli invitati, e particolarmente a quelli che avevano meglio acquistata la sua approvazione, distinguendosi o in
qualche utile industria agricola, o nell’economia domestica, o nell’allevare bestiame, o infine con una esemplare condotta o con qualche bell’azione di cui ella si faceva render conto dal suo fattore,
uomo integerrimo e grandemente amato in paese. E a questo banchetto, che per solito s’imbandisce nelle cucine dei signori, e che ella aveva divisato di trasportare in un salotto a pian
terreno che dava sul suo giardinetto, e che aveva a tal fine appositamente fatto allestire, si proponeva di sedere anch’essa attorniata da’ suoi buoni affittaiuoli, e di prenderne parte, che che
ne dovessero poi dire i suoi illustri parenti.
Pagina aggiornata il 26/02/2025