03 – La chiesa di San Lorenzo di Soleschiano

Percorso turistico Dedicato a Caterina - Percorsi di Terra e Cultura

La chiesa di San Lorenzo di Soleschiano
La profondità di un vero credo

Caterina Percoto era una donna intelligente e concreta. Alcuni l’hanno descritta ‘schiva’ ma in realtà il tenersi lontana da certi argomenti era unicamente dettato dal suo desiderio di
concentrarsi sulle cose che realmente riteneva valide e alle quali era importante dedicare il suo tempo, sempre così scarso e quindi prezioso. Alla sua amica e ‘collega scrittrice’ Luigia Codemo,
che voleva redigere la sua biografia, Caterina nel 1866 scrive senza troppi preamboli: ‘Non amo poi niente affatto e schiettamente glielo dico ch’Ella scriva la mia biografia. Che potrebbe dire
di me? Nata nel tal’anno, vissuta in campagna fino al tal’altro, educata in convento, poi fatta la prima comparsa nel mondo in una città di provincia, poi di nuovo in campagna, ecc. Tutte cose
che non possono per niente interessare il signor pubblico, il quale se crede può leggere i miei scritti. Io l’ho colle biografie! sento che una volta o l’altra romperò una lancia contro questi
signori che vogliono mettere in piazza i dolori e le gioie dei poveri diavoli che hanno qualche celebrità’.

C’è però un’altra circostanza nella quale Caterina preferisce il silenzio e questo accade per argomenti particolarmente personali e che riguardano, possiamo dire, la più profonda ‘sfera
dell’anima’. Questo si può vedere bene nel suo rapporto con la religione dove Caterina segue totalmente la sua indole e vive il suo credo in modo totalmente introspettivo, senza
intrattenersi mai in dotte riflessioni o nella stesura di pagine particolari. Nelle sue novelle troviamo spesso prelati, preti, suore o monache ma difficilmente emergono indizi ‘personali’
che ci possono aiutare alla vera comprensione del suo sentimento religioso. Qualcosa di più possiamo conoscere dalle lettere nelle quali la religione appare più come un conforto e un
valore da vivere nel quotidiano, ‘facendo’ del bene…

Caterina Percoto ‘educanda’
Dopo un’infanzia tutto sommato felice tra i campi della sua Soleschiano e i teneri abbracci di un padre ovviamente più indulgente verso l’unica figlia femmina, nel 1821 e più precisamente all’età di nove anni Caterina entra nel Convento di Santa Chiara di Udine per ricevere la sua prima educazione. Questo è un luogo molto esclusivo perchè sia le suore che le educande appartengono alle famiglie nobili più importanti del Friuli. Secondo quanto scritto nel diario dall’autrice, sua madre Teresa Zaina non si sarebbe ‘mai risolta’ a mandarla in un’istituzione religiosa per studiare. Furono invece le finanze dissestate che indussero la famiglia a scegliere quella soluzione poichè nel monastero c’era Suor Maria Geltrude, sorella del Conte Percoto, che fu capace di far ammettere Caterina a Santa Chiara malgrado i suoi natali non fossero completamente nobili (sua madre, infatti, era solo una gentildonna) e sicuramente con un trattamento economico di favore. Nel diario di Caterina, ancora conservato presso la Biblioteca Comunale di Udine, il sentimento di antipatia nato sia tra le suore che tra le educande a causa del suo status non totalmente nobile viene raccontato con profonda amarezza: ‘Forse perché le monache appartenevano alle prime famiglie del Friuli e per entrarvi educanda anche allora ci voleva patente di nobiltà e solo soffrivano a malincuore qualche rara eccezione, causa i tempi mutati che le vecchie continuamente deploravano. Io che dal lato di madre puzzavo almeno per un quarto di sangue plebeo (…) fui accetta con molta difficoltà e in seguito ben mi avvidi che non era possibile che mi perdonassero cotesta macchia originale. Nei giorni di benevolenza mi chiamavano la nipote di Suor Maria Geltrude e pareva che con questo titolo d’onore procurassero di generosamente coprire il disgusto invincibile loro prodotto dall’altra disgraziata metà del mio sangue’ (BCU, f.p. 3996/II, MS1373). Nei primi anni, Caterina accetta senza reazioni le conseguenze del suo non essere overa e non ‘completamente’ nobile. Presto però, il suo rapporto con le educande e con le suore diventa una ‘guerra accanita’, piena di castighi e incomprensioni, fermando nell’anima dell’autrice la convinzione che la vera religione non può esistere all’interno di istituzioni religiose e tanto meno all’interno di comunità di persone che vivono totalmente segregate dalla vita reale. Bellissime sono le descrizioni, sempre nel diario, delle preghiere recitate ‘a pappagallo’, dei pasti fatti in silenzio in teoria per meditare sulle scritture ma in pratica per andare con la mente nei prati di Soleschiano, delle occupazioni divise in ‘buone’ e ‘piuttosto mondane’: tra queste ultime c’erano la lettura e lo studio… proprio quello che Caterina, anni più tardi, definirà come un mezzo necessario per raggiungere ‘la vera vita, la vita dell’anima!’…

La biblioteca del convento
Leggere era dunque una tendenza piuttosto mondana? Un’asserzione così povera nel contenuto non poteva se non far scattare nella giovane Caterina il grande desiderio di provare di persona il suo significato. Così, soprattutto di notte e lontana da occhi indiscreti, Caterina trascorre molte ore nella biblioteca del convento. Pensate che anche dopo molti anni, l’autrice è capace di ricordare molte delle opere che erano presenti (ne fà una sorta di lista nel diario) ‘alle quali era assai difficile che venisse aggiunto niente di nuovo’: ovviamente sono tutti libri legati alla religione, alla vita dei santi oltre a qualche volume di geografia, del Cattaneo e del Valsecchi. Giorno dopo giorno, lettura dopo lettura, chiusa nell’austera biblioteca Caterina si accorge dell’immensa grandiosità dello studio e dei risultati che questo permette di raggiungere.
Così si appassiona, mettendo anche a fuoco interessanti conclusioni: ‘Fra le tante deduzioni ch’io andava allora facendo, una mi pareva ogni giorno più vera; ed era, ch’io avevo patito una grande
oppressione ed una enorme ingiustizia nell’essere stata, a cagione del mio sesso, privata per tanto tempo di piaceri dello spirito; e nel modo che potevo procuravo di riparare coll’istruirmi e col
leggere. Né mi credeva il menomo sospetto che quel mio proponimento potesse racchiudere neppur l’ombra della colpa. Ciò mi pareva non solo innocente ma cosa buona’ (f.p., MS4088).
Uscita dal convento nel 1833, la madre Teresa Zaina aiuta Caterina nello studio procurandole i libri e sollevandola dagli impegni della casa così da lasciarle il tempo necessario per lo studio. In questi anni (1833-1836) nei quali la famiglia risiede a Udine, Caterina impara da sola il tedesco, il francese e il latino.

Le ‘suore’ 
Malgrado i brutti trascorsi, nelle novelle percotiane ci sono bellissime figure di suore, estremamente umane. Tra queste, sicuramente la più commovente è suor Maria Eletta della
novella ‘La sçhiarnete’ che decide di ritirarsi in convento disgustata dalle cattiverie del mondo. Quando lei racconta alla povera Tina la sua storia, le parole che la Percoto utilizza ne descrivono
un animo puro, profondo e assolutamente credibile nelle disillusioni che la vita nei suoi primi anni riserva. Anche il conforto trovato nella religione, una volta entrata in convento, viene presentato
al lettore con estrema onestà e senza falsi pretesti, mettendo davanti a chi legge un personaggio credibile e decisamente coinvolgente. Ovviamente, comunque, nelle novelle percotiane troviamo
anche altre tipologie di suore come quelle de ‘Le monache di Monte Pincio’, un racconto breve che narra la storia di un convento preso come quartier generale da alcuni soldati francesi. All’inizio le suore sono spaventate e inorridite dal fatto di avere degli uomini nel loro convento. Dopo un po’, però, la situazione si capovolge al punto che la convivenza diventa molto piacevole, come possiamo vedere nella descrizione della festa, tenuta appunto nel convento: ‘Al suono dei violini le negre tuniche volavano allegramente per la sala, e scapolari e cingoli e veli si confondevano coi caschetti’. Caterina ebbe non pochi problemi a far pubblicare questa novella, soprattutto con i cattolicissimi fratelli Fortunata e Luigi Bottaro che la giudicarono immorale. Sarà solo la determinazione dell’amica Marina Baroni che farà retrocedere la contessa affermando che
l’editore va ascoltato: ‘E’ più difficile dire di no alla Baroni che agli editori’, confesserà la Percoto all’amico Serravallo, lasciando così che la divertente novellina venisse riscoperta solo nel 1952 in
un’edizione postuma a cura di Gianfranco D’Aronco.

Un padre spirituale
Don Pietro Comelli era il pievano di Soleschiano e, per i conti Percoto, teneva aggiornati i libri dell’amministrazione oltre che fare da precettore. Per la famiglia era una persona
di casa mentre per Caterina era un caro amico, un consigliere e una persona di fiducia in quanto ‘buon conoscitore dell’animo umano’. La tradizione vuole che sia stato lui ad inviare di nascosto
quella critica alla traduzione del Messiade di Kopstock fatta dal Maffei che farà conoscere la Percoto al mondo letterario. In realtà, sia il carattere della contessa (provate a immaginare come
avrebbe reagito ad una cosa fatta di nascosto da lei!) che la corrispondenza tra la Percoto e il Dall’Ongaro (direttore de La Favilla, il giornale che per primo pubblicò uno scritto percotiano) non
danno prova di questo fatto.

Definizioni…: Sempre nell’ambito di che cosa si poteva e non si poteva pubblicare, nel manoscritto conservato presso la Biblioteca Joppi di Udine alla segnatura f.p.3995/II fascicolo 23, troviamo la definizione dei peccati capitali dell’alto clero e delle virtù cardinali ‘rivisitati’, in privato, dalla nostra autrice: da come sono impostati graficamente sul foglio originale si può dire con una certa sicurezza che fossero solo appunti e non un testo pensato per la pubblicazione. Peccati capitali dell’alto clero: 1) superbia, 2) avarizia, 3) ira, 4) invidia 5) zelo
Sue virtù teologali: 1) speranza, 2) fede, 3) carità (fa elemosina ma non ha il sentimento della carità)
Virtù cardinali: tutte e quattro, ma in piccola dose e in ordine inverso cioè: 1) fortezza, 2) temperanza, 3) giustizia, 4) prudenza
Sempre nel f.p.3995/II ma questa volta segnato come manoscritto (MS1080) troviamo anche un riferimento ai giornali cattolici del tempo, che la Percoto definisce ‘giornalacci clericali’ (BCU, f.p.
3995/II, MS1080).

La religione come conforto
Caterina era una donna profondamente religiosa ma odiava l’ipocrisia che spesso permeava il clero e il suo comportamento. Non era concepibile per lei che un Dio potesse ascoltare ‘chi prega di più’ invece di chi ‘prega con l’anima’ oppure preferire la vendetta al perdono. Come spiegato all’inizio, la Percoto non parla espressamente del suo sentimento religioso però possiamo dedurre con una certa sicurezza che la sua fosse una religione molto umana, capace di comprendere invece di giudicare, aiutare invece di umiliare, confortare invece che aumentare le sofferenze della vita. Il suo Dio sembra più un padre, che conosce i suoi figli e quindi i loro limiti e le loro paure. Un padre capace di dare vero conforto, consiglio e solidarietà. Una prova di questo si può trovare in un pattern ricorrente nelle novelle percotiane che ritrae donne disilluse e amareggiate dalla vita che trovano nel convento un luogo di pace e comprensione, conforto e solidarietà.

> Letture per il tema Caterina Percoto e la religione

Tratto dal manoscritto BCU, f.p.3995/II, MS1373
Forse perché le monache appartenevano alle prime famiglie del Friuli e per entrarvi educanda anche allora ci voleva patente di nobiltà e solo soffrivano a malincuore qualche rara eccezione,
causa i tempi mutati che le vecchie continuamente deploravano. Io che dal lato di madre puzzavo almeno per un quarto di sangue plebeo (…) fui accetta con molta difficoltà e in seguito ben mi
avvidi che non era possibile che mi perdonassero cotesta macchia originale. Nei giorni di loro benevolenza mi chiamavano la nipote di Suor Maria Geltrude e pareva che con questo titolo
d’onore procurassero di generosamente coprire il disgusto invincibile loro prodotto dall’altra disgraziata metà del mio sangue.

Tratto dalla novella ‘La farfallina mistica’ (pagina 499-500)
Vivevano or saran duecent’anni in un monastero d’Italia due monacelle. L’una chiusa là entro fin dagli anni infantili, non aveva avuto altra vocazione che l’esempio delle altre. Ella aveva perduto la madre col nascere, ed era rimasta in cura ad una sorella di diciott’anni. I fratelli sprecavano, il padre viveva lontano, e questa sua sorella pienamente arbitra di se stessa, nella sua inesperienza si fidava un po’ troppo ai dolci sorrisi del mondo e s’era lasciata andare a cogliere le rose ch’ei lusinghiero le offriva: ma fu presto punto dalle inevitabili spine e risolse rifugiarsi in un monastero, dove seco trasse la fanciullina che non aveva ancora compiti i tre anni. Questa fanciullina che noi chiameremo Bianca, quando fu cresciuta, si cinse anch’ella il velo. Era lieta, semplice, e bambina ancora benché fatta donna. Le vecchie madri non degnavano parlare con lei delle loro gioie passate, le più giovani non ardivano comunicarle le loro presenti fantasie. La solitudine, i pochi congiunti, e le mura insuperabili del chiostro la tenevano divisa ed ignare di ogni idea che non fosse relativa al suo stato. Nella grande innocenza e semplicità in cui era cresciuta, poteva paragonarsi alla povera testa a cui prima di saper leggere, fossero state tolte le orecchie e gli occhi. Avvenne che in quel monastero quasi contemporaneamente alla Bianca si monacò un’altra giovinetta che noi diremo la Rosa; ma questa aveva vissuto il mondo, e benché il suo sacrifizio fosse stato affatto spontaneo, conosceva peraltro così i beni lasciati come i guai fuggiti, e ciò che valevano i voti irrevocabili ch’ella aveva pronunziati dinanzi all’altare.

Tratto dal manoscritto BCU, f.p.3995/II, MS1373
Nei mesi estivi venivano a farci alzare a’ primi crepuscoli, quando ancora era tutto buio e al suono della sveglia accendevano i lumi. La monaca destinata a quest’ufficio intonava una preghiera
durante la quale dovevamo balzare dalle coltrici (…). Vestite, si scendeva in iscuola (sic) a pettinarci l’un l’altra. Fuori dalla scuola stava un secchiello e un asciugamani che doveva servire
per tutte quattro le classi (…). Era un lavarsi assai spiccio ma a cotesto non badavano le monache, le quali nella loro vita mortificata e tutta annegazione in fatto di pulizia avevano certo idee assai singolari (…). Al tocco delle otto in coro alla messa, poi si attraversava la corte quadrata e si veniva in cucina, dove la campana ci chiamava colazione (sic). Finita questa, suonava scuola e consisteva in ogni sorta di lavori dall’umile calzetta ai più difficili trapunti che si eseguivano recitando l’Ufficio della Vergine od ascoltando la lettura di qualche divoto (sic) (…). A mezzogiorno in punto a pranzo e prima una visita al santissimo sacramento. In tavola ben s’intende che non era permesso parlare(…).
Nelle ore pomeridiane la scuola come al mattino, senz’altra interruzione che la sospirata cesta della merenda. Al tramonto la seconda ora di ricreazione, poi il coro alla recita del Rosario, finito il
quale portavano i lumi sul banco e si doveva fare un’ora e tre quarti di meditazione su un libro d’ascetica; mi pare certo che fosse una manna dell’anima. Si passava indi in scuola e invece delle solite maestre, (…) veniva adesso una sorella conversa o qualche monaca malaticcia; e quel tempo che si stava lì aspettando la cena dicevano Fila, ed era l’ora che permettevano di studiare le loro lezioni a quelle di noi che imparavano le lingue o la musica (…). A cena silenzio e lettura come a desinare. Poscia nelle nostre camerate è permesso il gioco fino alla venuta della monaca che ci conduceva in chiesa alla recita delle altre orazioni, dopodichè era finita e si andava a coricarsi.

Tratto dalla novella ‘La sçhiarnete’ (pag. 581-582)
Suor Maria Eletta amava la solitudine, e, a meno che non fosse all’estremo sofferente, impiegava le sue ore in ogni sorte di leggiadri lavori, tra cui tenevano il primato i fiori artificiali. Un mazzolino ch’ella aveva creato per le feste di Natale parve alla Tina tale portento da non potersi capacitare che fosse opera umana. I fiori più minuti come la luisa, la vainiglia, diverse specie di verbene erano perfettamente imitati, la mammola difficilissima somigliava così vera da invitarti ad odorarla, ma due rose sovrattutto erano veramente incomparabili. L’una appena sbocchiata pareva che avesse nel grembo le gocciole della rugiada, l’altra appassita, coi petali scolorati pronti a sparpagliarsi al minimo soffio, guardava la terra con tanta malinconia, ed era così leggiadra nel suo dilicato pallore da farti pensare sospirando al fuggevole sorriso degli anni giovanili.

Tratto dalla novella ‘Il nome’ (pag. 581-582)
La chiesa stipata da una moltitudine divota, i cantici degli antichi profeti accompagnati dalla maestosa melodia dell’organo, il profumo dell’incenso, la poesia delle preghiere e dei mistici riti
mi sollevavano l’anima a santi pensieri, ma quel che mi rimase più profondamente scolpito nella memoria si è la predica che in quel giorno ci fece il Parroco. Egli era un uomo venerando che aveva consumato la vita nello studio delle sacre scritture e nell’esercizio del suo ministero. Sono parecchi anni ch’egli dorme nella pace del sepolcro, ma io me lo veggio ancora dinanzi nella maestà della sua sacerdotale figura, così come quando si volse dall’altare a spiegarci il rito di quel giorno, e la sua bella testa illuminata dalle faci consacrate s’inspirava alle divine parole del profeta: – Lumen ad revelationem gentium. Quelle parole come se fossero state una scintilla elettrica lo trasportarono in tempi futuri, ed ei vedeva e ci spiegava con un fiume di eloquenza le pacifiche conquiste di quella dottrina civilizzatrice di cui quelle candele dispensate al popolo erano simbolo. Ora egli non è più e non ha veduto questi giorni di lotta. Altri sacerdoti sono succeduti nel suo posto e predicano di denaro di S.Pietro! I pastori si dividono dal loro gregge e abbiamo veduto i vescovi accettare d’essere consecrati fra le baionette e venire alle loro chiese scortati dalla milizia straniera…

Tratto dalla novella ‘Pe bocie si s’cialde il fôr’ (Scritti friulani – pare che la descrizione si riferisca a Don Pietro Comelli)
Un predi, di chei nestris vocios di une volte, che s’impazavin pôc di politiche, ma che peraltri e’ olevin ben al loro puor paîs, mi à insegnât, quant che ‘o eri frute, a cognossi il valôr di chest
proverbi furlàn. Si fasevin i fens: un cialt che al brusave l’anime, e lis zornadis plui lungis de l’an. Dopo gustât, quant che ere une ciarte ore, chel predi, nassût contadin, che al atindeve ai lavors de
nestre campagne par judà la me’ puore mame restade vedue cun t’une cosse di fruz, al tacave la caretine e, preparât t’un zei un pâr di salams, taiâz a fetis, al mi chlamave a judalu a dispecolà un
quatri mans id pan, e po al leve in cianive a emplà une damigiane del vin plui bon che si veve: al mi faseve meti il miò ciapelut di pae, e – Anìn – al diseve – a cjata’ i setors

Pagina aggiornata il 26/02/2025

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