N. 4 Â Il mulino di Caterina Percoto
Caterina Percoto imprenditore illuminato
Nel 1854 muore la madre di Caterina. L’autrice è già una scrittrice affermata: è del 1838 la collaborazione con il settimanale La favilla, del 1845 la pubblicazione sotto forma di libro della
novella ‘Lis cidulis: scene carniche’, del 1847 la collaborazione con la Rivista Europea. A seguire si è già ‘fatta sentire’ pubblicando le novelle sugli episodi bellici che si sono svolti in Friuli rischiando l’arresto ma rendendo il suo nome conosciuto anche a livello nazionale. Già nel 1851 pubblica molti racconti su La giunta domenicale del Friuli, sia in italiano che in friulano. Una scrittrice professionista, possiamo dire, che però alla morte della madre si ritrova a dover badare anche alle terre gravate da debiti che le vengono date in eredità (al fratello, la madre darà invece i terreni più produttivi nella convinzione che solo Caterina sarebbe stata in grado di risollevare le sorti di quelli più in difficoltà ). Arrivano anni difficili non solo a causa della crittogama che ha infestato le viti, del freddo che ha fatto morire i bachi da seta e delle imposte imperiali arrivate alle stelle, ma anche perché l’autrice si trova a dover badare ai tre figli di suo fratello Costantino, morto all’improvviso: i bambini sono Antonio, Stefano e Giuseppe. In questi anni, anche nelle lettere in cui Caterina parla delle sue novelle, troviamo spesso riferimenti alla sua nuova vita da ‘mamma’ e da imprenditore agrario, ritrovandola a Palmanova a comprare dei buoi, oppure ad accudire alle oche di prima mattina senza dimenticare la gioia alla nascita di 8 porcellini…
Da donna forte e concreta qual è, Caterina non si lascia intimidire dalla difficoltà della situazione e comunque, all’inizio di questa sua nuova ‘carriera agricola’, decide di affrontare la situazione a
testa alta mettendosi nel solco della tradizione e seguendo tutti i dettami che i vecchi sotans le illustrano minuziosamente. Lei non è entusiasta di questa nuova attività : ovviamente, il suo sogno
sarebbe quello di chiudersi nel suo studiolo a scrivere e a leggere oppure lasciarsi andare ai pensieri camminando per i campi, lungo il Natisone o guardando le belle colline che dalla pianura
nascono come di colpo, subito dopo Manzano. Ma la realtà chiama e Caterina, dopo poco tempo passato a seguire gli insegnamenti passati, considerati gli scarsi risultati decide quasi subito di
cambiare direzione e di fare a modo suo: ‘ho bisogno di gente che lavori e così il gastaldo e il fattore me lo faccio da me’ (BCU, f.p. 3995/I, MS88)…
Un’impresa eccezionale
Nel Friuli di oggi ci sono tante donne imprenditrici, a capo di aziende agricole o allevamenti. E questo non fa più scalpore. Ai tempi di Caterina, invece, soprattutto la
campagna era vista come un settore prettamente maschile e assolutamente non di pertinenza delle classi nobili che delegavano la cura delle loro terre, appunto, ai gastaldi e ai coloni. Nel 1854 Caterina era una contessa, ancora nubile a quarantadue anni (tanti, per quei tempi!), ovviamente senza figli suoi, che viveva da sola con tre orfani e che scriveva novelle oltre ad essere presente nella vita culturale e intellettuale italiana (altro ambito tendenzialmente reputato maschile)… un personaggio molto particolare, è evidente, e che aumenterà la sua eccezionalità con la decisione di lavorare le sue campagne di persona e allevare da sola i suoi animali: per noi è difficile capire quanto la figura dell’autrice fosse stata alternativa. E secondo me ancora noi ci rendiamo poco conto di quanto lei in fondo amasse questo suo essere decisamente un personaggio sui generis.
Molti dei suoi biografi, ad esempio, hanno collegato il suo fumare il sigaro, l’andare da sola in calesse o in chiesa senza velo come un tentativo di guadagnare credibilità in un mondo governato dagli uomini: io personalmente, dopo più di vent’anni passati al suo fianco, sono invece convinta che lei si comportasse così seguendo il suo istinto e il suo gusto, totalmente impermeabile al giudizio negativo di chi la osservava da lontano…
Gli amici liberali
Negli anni in cui comincia a lavorare nelle sue terre, la Percoto inizia anche ad avvicinarsi ad un gruppo di liberali friulani uniti dal fermo proposito di introdurre nel territorio uno
svecchiamento delle pratiche agricole tradizionali. Questi si riuniscono nella redazione di giornali come L’amico del contadino o il Bullettino della Società Agraria e tra loro ci sono personaggi come Pacifico Valussi, determinato a svecchiare non solo l’agricoltura ma anche la classe intellettuale friulana. Il suo Bullettino dell’Associazione Agraria avrà ‘un’importanza fondamentale nell’opera di svecchiamento della classe proprietaria e nell’introduzione in Friuli di metodi scientifici e di attrezzature moderne in agricoltura’ (Antonio De Cillia, Appunti sul mondo rurale di Caterina Percoto, 1987, pag. 10). Caterina si associa, pur avendo finanze molto limitate, a questi giornali aspettandoli con ansia per decidere come agire: spesso la penso la sera accanto alla candela, dopo una giornata di fatica, a leggere avidamente ogni pagina e a pensare, organizzare, fantasticare sul futuro delle sue terre: intraprendente o incosciente? Non lo sapremo mai…
La vita nei campi si rinnova
‘Fare di necessità , virtù’: questo sembra essere un po’ il filo rosso di tutta la vita della Percoto. Ma quali innovazioni portò Caterina nelle sue terre? Come prima cosa, decise di far costruire una diga sul Natisone che ogni anno, con le sue esondazioni decimava il raccolto dei campi. È bello perché nei suoi scritti lei spesso si chiede che senso ha fare una cosa se sai che finirà male (se coltivi i campi vicino al Natisone, è ovvio che nove volte su dieci li avrai sotto acqua…): bisogna cambiare! Non mi è stato possibile avere maggiori informazioni su questa impresa così particolare ai tempi: certo è che Caterina la portò avanti con grande entusiasmo come la cura del vecchio mulino di famiglia per il quale aveva pensato di applicare la macinatura all’inglese. I mulini inglesi, infatti, erano rinomati per essere molto più produttivi di quelli del continente grazie alle macine con una superficie a solchi (oltre ad una tecnologia, per i tempi, decisamente avanzata): e come poteva saperlo Caterina?
Ma ovviamente attraverso le letture dei periodici d’agricoltura oltre che al continuo scambio di idee con i suoi amici liberali. Dal materiale che Caterina ci ha lasciato, poco si sa del suo intervento sui terreni: sicuramente, però, sappiamo che introdusse la cultura a rotazione. Questa implicava non solo la scelta accurata delle diverse culture e dei terreni ma anche di riservare dei periodi di riposo per i campi, cosa che ovviamente ai contadini, sempre affamati, non poteva piacere. Più notizie invece abbiamo sull’approccio percotiano all’allevamento che fu decisamente rivoluzionario. Caterina Percoto fu la prima a portare in Friuli le gallinelle ‘razza america’, le piccole galline che adesso vediamo spesso nei cortili. Inoltre, fu la prima ad avere nei suoi recinti le vitelline di razza Swift che pare siano le antesignane della famosa pezzata rossa friulana.
Bachi da seta della Transilvania
Tra le numerose cose molto particolari e coraggiose che la Percoto ha fatto in vita sua, forse la più incredibile è stata quella di importare una particolare specie di baco da seta, più resistente all’umidità e al freddo, dalla Transilvania. Adesso, per noi questa sarebbe un’impresa molto semplice: abbiamo il web, l’inglese, la possibilità di prendere un aereo e di arrivare in Transilvania in poche ore. Anche come donne sole potremmo viaggiare senza alcuna preclusione di sorta. Caterina invece viveva a Soleschiano che ai tempi era veramente un paese lontano da tutto (pensate che in autunno e in primavera spesso rimaneva isolato dalle esondazioni del Natisone) e difficilmente raggiungibile anche per la posta. Non aveva una lingua franca con cui comunicare con persone che non parlavano l’italiano, un mezzo di comunicazione veloce come il web o anche il telefono e, cosa più importante, non poteva viaggiare da sola. Io spesso mi immagino la fitta corrispondenza anche con gli amici liberali per ottenere informazioni, l’ansia di impiegare dei soldi comunque utili per il mantenimento dei figli di suo fratello o per fare delle migliorie nei suoi possedimenti, l’ironia nei confronti della scrittrice che un progetto come questo poteva suscitare. L’energetica contessa comunque portò a termine il suo disegno e i bachi da seta, a tutti gli effetti, dalla Transilvania arrivarono a Soleschiano dove però morirono poco dopo a causa di una malattia che già li aveva infettati già prima di partire.
La Percoto ‘contessa contadina’
La ‘contessa contadina’ è una definizione con la quale Pacifico Valussi nel 1889 identificò la sua amica Caterina. Perché ‘contessa’ è facile capirlo. Perché ‘contadina’ è forse più difficile da interpretare. Caterina infatti non rispecchiava i canoni dei nobili di allora: viveva tutto l’anno in campagna senza una residenza invernale in città , amava i campi e la natura che stava intorno a lei, lavorava di persona nei suoi terreni e tutto sommato era anche in relazione con i contadini del posto, come si vede anche dal suo osservare le usanze tipiche e poi scriverne all’interno di molte delle sue novelle. Nel tempo, però, questo appellativo ha iniziato ad assumere un significato assolutamente sbagliato che possiamo riassumere in ‘la contessa amica dei contadini e degli umili’. E perché questo? Perché nella produzione letteraria percotiana troviamo tante figure di contadini e contadine alle cui disgrazie l’autrice sembra partecipare in prima persona. Ma non era lo stesso nell’Angiola Maria (1839) di Giulio Carcano? Oppure in tutta la produzione letteraria della così detta ‘Letteratura rusticale’ codificata da Cesare Correnti? Come ogni autore, Caterina scriveva seguendo i gusti dei lettori del suo tempo e parlare in un certo modo dei contadini faceva parte di queste regole. La conferma che la Percoto, in realtà , era una contessa e non una contadina si può invece trovare molto chiaramente nella sua corrispondenza e negli scritti privati dove non c’è nessun riferimento ai contadini o ai ‘poveri’ che vivevano nelle sue terre o nelle terre vicino. A tutti gli effetti, si tocca con mano la totale assenza di partecipazione, com’era naturale e giusto che fosse per una contessa del XIX secolo. Leggendo il suo materiale autografo ancora custodito presso la Biblioteca di Udine ho trovato solo un accenno alle case dei contadini, che Caterina descrive come ‘tuguri di bestie’: nello scritto però non c’è nessun riferimento ad un’eventuale intenzione di migliorare gli edifici o le condizioni dei suoi poveri abitanti.
>Â Letture per il tema Caterina Percoto imprenditore
Testo tratto da ‘Un episodio dell’anno della fame’ (pag. 150)
Arrivò sul mezzogiorno. Il padrone lo mise tosto nel novero dei lavoranti. Era una turba di cinquanta e più uomini, che in quell’ora entravano tutti nel cortile; e in cucina in una gran caldaia
si rimestava un’enorme polenta per quelli di essi che avevano scelto di riscuotere così la loro porzione di farina (…). Quel signore trasse in quell’anno un grand’utile dalle braccia dei poveri
ch’egli seppe impiegare. I magliouoli da lui piantati hanno prosperato magnificamente, e i mori a ceppaia, e quelli d’alto fusto, che da ambi i lati mettono confine ai filari delle viti sono ora
giganteschi, e servono di modello agli agricoltori di que’ contorni. Pietro, con senso di riconoscenza, visita ogni anno questa bella piantagione, e nei giorni testé passati additava tutto
allegro la molta uva pendente da quei tralci rigogliosi. Parevo che ve l’avessero appesa col filo, tanto il Signore si era compiaciuto di benedire i sudori del povero, e la benefica industria di quel
bravo possidente.
Testo tratto da ‘La fila’ (pagina 284)
Era venuto l’autunno: quella stagione in cui la terra friulana, parata siccome a festa, fa pompa del più lieto de’ suoi prodotti. Dal mare alle alpi, disposti in innumerevoli filari si danno la mano i tralci delle sue viti. Spesso il frutto pende più copioso delle foglie, e chi visita in quell’epoca le colline della sua regione di mezzo, benedice ai grappoli d’oro di quelle tante ghirlande. Ma nell’ottobre
del ’52 la campagna del povero Friuli era mesta. Tristi anni si erano successi, e per colmo di sventura in quest’ultimo anche i suoi bei vigneti infracidivano. Il flagello venuto dal mare s’era
propagato fino alla montagna. A guardare quelle trecce fiorenti di verdura e da un momento all’altro affumicate, passe, quelle uve fetenti e abbrustolite, pareva che l’angelo della desolazione
fosse passato per il paese e l’avesse tocco col tremendo suo dito. La vendemmia si compiva in silenzio, turbe di contadini seguivano avviliti i carri che percorrevano le vie, trasportando nei tini il
sudicio avanzo del frutto che crepitava come se fosse carbonato.
Testo trattoTesto tratto da ‘Il cuc’ (pagina 407-408)
A due tiri di fucile dal villaggio di Manzinello, in riva al picciolo torrente che scende dai colli vicini, presso al ponte è situata una rustica casetta di contadini, ma così propria e pulitina, che ti si rivela subito il ben essere della famiglia che dentro vi abita. All’un dei lati una palizzata nuova, sulle cui punte simmetricamente tagliate in forma di labarde fan capolino alcune rose del Bengala, chiude un orticello diligentemente scompartito; dall’altro s’allarga il cortile che scende fino alla corrente e dal quale a guisa di piramidi s’innalzano diverse biche di paglia e di strame, sulla cui più alta cima sventola una banderuola ad indicare i mutamenti dell’aria. Quel cortile è popolato da una quantità di bestiame minuto, e ti sarà di rado occorso di passarvi dinanzi senza vederne uscire od entrarvi reduci dal pascolo molte torme di polli d’India, di anitre, di oche, guidate da qualche tarchiato fanciulletto (…). Dalle finestre del granaio puoi scorgere come ei sia tutto soffittato da lunghi festoni di granturco, e spesso essi si protendono fino al di fuori appesi a dei grossi chiodi ad inghirlandare la facciata di mezzogiorno. Questa casa è abitata da una numerosa famiglia di
contadini, che pagano puntualmente il loro affitto…
Testo tratto da ‘La mulinarie’ (Scritti friulani)
‘E jere la vilie di Sant’Andrèe, la stagion des plois: par plui d’un mês al veve simpri sirocât, e in che’ gnot al sglavinave. Sâr Checo al ere lât a durmì: in tal mulin e’ jerin restâz su nome doi fruz:
Jacumin di 13 agns e Mignete plui pizzule. ‘E rindevin es muelis, e une lun piciade in jenfri i s’ciassui (le nottole della tramoggia) ur faseve un fregul di lusôr. Ur veve parût plui di une volte di sintì a cricà , quant che dut in t’un bot ‘e si ferme une muele. E’ dispìcin la lun, e’ corin a viodi. Une masèrie di rudinaz jessut jù dal mûr al veve sepelide la torte (la ruota verticale che gira con la
ruota a pale), e doi bocons di piere colâz dal riquadri e’ tignivin inclaudât il mel (grosso trave orizzontale, prolungamento del rotore).
Testo tratto da ‘Il bastone’ (pagina 666)
Così, nella stagione dei bachi una partitella composta dei rifiuti della bigattiera fu da essediligentemente allevata coi rimasugli della foglia che andavano spigolando lungo le ceppaie già spogliate, e i bozzoli raccolti li avevano venduti per loro conto, e tranne la signora Marianna nessuno sapeva come ne avessero impiegato il denaro.
Lettere a Carlo Tenca (19 luglio 1857)
Avrei potuto convertire tutta la mia partita di bozzoli in tanta eccellente sementa, e co’ prezzi che corrono, prepararmi alcuni mesi di quiete per la novella che desiderate. Perché, dovete sapere,
che i miei bachi furono allevati lentamente senza sussidio del fuoco, all’aria quasi aperta, con foglia sempre fresca, di due cacciate di gelsi non innestati, proprio così come si dice nell’articolo.
E di fatti si fecero quasi ottocento libre di galetta bellissima e la poca di semente che tengo per mio uso e per cui ebbi la pazienza di scerre ad uno ad uno tutti i vermi, ne dà farfalle veramente
perfette e che pendono così generosamente da lasciarmi disporre d’una buona metà delle uova. Ma di tutto questo, pur la vita affatto isolata che meno ebbi l’ignoranza di non accorgermi, se non
dopo venduti, cioè dopo letto il vostro articolo, e dopo che vidi qui in casa di mio fratello alcuni lombardi che sono venuti a far semente e che si accontentano di galetta bene inferiore alla mia.
Tratto da Un’escursione in Carnia (lettera alla Contessa Marianna Deciani Antonini, 1847 – data non certa)
Noi continuammo con lui la gita deliziosa fra quelle pittoresche montagne. Visitammo il suo poderetto doveegli ha piantato dodici mori, ch’ei chiama i dodici apostoli, e davvero che
l’appellazione non è sbagliata perché essi hanno predicato; e ora da per tutto il canale vedi delle fiorenti piantagioni di quell’albero benefico che ti fanno presentire che in breve anche la Carnia
farà dei progressi in un così utile ramo dell’industria. Ed è merito di lui che con altri suoi amici li ha introdotti in Incaroio, negli anni passati ne tenevano un numeroso vivaio a solo fine di regalarne a chi voleva.
*Testi a cura di Elisabetta Feruglio
Pagina aggiornata il 26/02/2025