07 – paese di Manzinello

Percorso turistico Dedicato a Caterina - Percorsi di Terra e Cultura

N. 7  Il paese di Manzinello
Caterina Percoto racconta il suo tempo

La produzione letteraria di Caterina Percoto è decisamente ‘sui generis’ perché mescola alcuni elementi appartenenti alle correnti letterarie del tempo con spunti decisamente originali. La sua
produzione è principalmente di novelle, ambientate nel Friuli a lei contemporaneo che narrano storie in cui troviamo come personaggi in primis i contadini ma anche membri dell’alta società.
Tendenzialmente, i protagonisti sono donne (contadine, suore e nobildonne) per le quali, come abbiamo visto, Caterina aveva un particolare interesse e delle quali continuerà ad occuparsi anche al di fuori dell’ambito letterario. Piccola ma molto bella è anche la produzione di novelle in friulano dove l’autrice, decisamente più a suo agio con la lingua, riesce a tratteggiare eventi e personaggi con una profondità cristallina e una delicatezza veramente esemplare.

L’esordio letterario: Il primo testo della Percoto venne pubblicato sul periodico La Favilla: si trattava di una piccola critica letteraria ad una traduzione di un pezzo del Messiade di Klopstock
fatta dal Maffei. Il testo apparve non solo con il nome non corretto di Catterina Percotto ma anche introdotto da una nota sarcastica dell’editore (Giuseppe dall’Ongaro) che giustificava la
pubblicazione con il non voler ‘negare questa pubblica testimonianza di stima alla diligenza ed alla fatica della valorosa autrice, la quale a buon diritto pretende, che i colpi da lei menatici figurino in pieno giorno’ (‘Estetica’, La Favilla, 3 marzo 1839, p.122). La risposta seria ed essenziale dell’autrice viene sorprendentemente pubblicata, suscitando il rispetto soprattutto dell’editore che, dopo aver letto altri lavori di traduzione e critica della Percoto, la esorta a ‘mutar qualche volta registro; e poiché aveva l’onore di appartenere al sesso gentile, volesse mandarci qualche scritto da donna, (ovvero la descrizione) dei mille aspetti della natura, dei costumi, le tradizioni, le vicende, gli affetti (…) dei campagnoli’ (G. Dall’Ongaro, Racconti, p.II and p.IV). Produzione letteraria: Caterina Percoto pubblicò le sue novelle in italiano sotto forma di volumi ma anche singolarmente su giornali e riviste senza dimenticare gli ‘opuscoli’ per le nozze che erano piccoli libricini realizzati espressamente in occasione di un matrimonio e che potevano contenere poesie, novelle e anche traduzioni tratte da poemi o componimenti di autori classici o moderni.

La produzione letteraria della Percoto è stata molto ricca: riportiamo qui le varie pubblicazioni che vennero alla luce quando Caterina era ancora in vita.
– Lis cidulis: scene carniche – Papasch e C. del Lloyd Austriaco – Trieste 1845
– Racconti: raccolta di novelle con introduzione di Niccolò Tommaseo, Le Monnier – Firenze 1858
– Racconti di Caterina Percoto: seconda edizione dei Racconti con l’aggiunta di novelle inedite sia in italiano che in friulano, una sezione chiamata Lettere (contiene: Un’escursione in Carnia e Una
pagina del giornale della zia) e alcune traduzioni, 2 vol , Editrice La Direzione del Periodico La donna e la Famiglia – Genova 1863
– Dieci raccontini per fanciulle, Trieste 1864
– Novelle scelte, nuova edizione adorna di 22 incisioni, Libreria di educazione e di istruzione – Paolo Carrara editore – Milano 1880
– Novelle popolari edite ed inedite, Libreria di educazione e di istruzione – Paolo Carrara editore – Milano 1883

Al contrario delle novelle in italiano, quelle in friulano appariranno sotto forma di libro solo dopo la morte dell’autrice:
– Sei scritti friulani di Caterina Percoto con uno studio di Bindo Chiurlo, a cura di Bindo Chiurlo, Udine 1926
– Scritti Friulani, a cura di Amedeo Giacomini, Udine 1988.
Ci sono poi i giornali, le riviste e i periodici che spesso accolsero con gioia i componimenti percotiani. Tra questi ricordiamo La Favilla, Il Fuggilozio, La Concordia, Giunta domenicale al Friuli,
Il Diritto, Il Crepuscolo, il Giornale di Trieste, la Rivista Europea, La Ricamatrice – il giornale delle famiglie, Il giornale delle fanciulle. Caterina Percoto?Caterina Percoto? Un vero scrittore – Caterina Percoto esordirà come scrittrice di novelle nel 1841 su La favilla con la novella ‘San Giovanni Battista’. Molto interessante, per capire come l’autrice vivrà questo suo nuovo progetto di vita, è la corrispondenza con Carlo Tenca che era un letterato, giornalista e politico italiano, direttore della Rivista Europea e fondatore de Il Crepuscolo. La conoscenza tra i due autori risale al 1847 quando il Tenca invita la contessa a collaborare con la sua Rivista Europea. Dalle lettere, si vede come già nel 1855 la Percoto avesse deciso di diventare scrittrice: ‘a scrivere, ad onta de’ miei tanti impicci e della mia mutata fortuna, io mi ho nel cuore proprio quest’istessa ostinazione che voi dite di sentirvi a non voler morire’ (carteggio, pag.51) – anche se spesso la sua volontà viene addebitata a problemi finanziari: ‘adesso peraltro, se mi venisse una nuova apertura e fosse possibile trarne qualche vantaggio, credo che accetterei, perché, amico mio, io sono diventata povera ed ho fratelli ancora più poveri di me’ (carteggio, p.48). Un cambio radicale avviene nel 1857, quando Caterina scrive ‘basta, voglio tentare’ (p.101): da questa data, infatti, non troviamo più una Caterina dubbiosa e indecisa ma un’autrice matura e consapevole del proprio valore tanto da tenere testa anche agli editori come Felice Le Monnier del quale, sempre rivolgendosi al Tenca, scrive ‘figuratevi precetti a me che non sono stata a scuola e che ho sempre scritto e voglio scrivere proprio e precisamente a mio modo’ (BCU, f.p., MS1401). Sempre sull’edizione delle novelle del 1858 di Le Monnier, la Percoto non si fa scrupoli a dimostrare il suo scontento: ‘come ha rovinato le mie novelle la pubblicazione. Hanno messo un sacco di oh, ah e altre cose che io non avevo messo’ (BCU, f.p., MS1401) senza contare i numerosi, odiatissimi, ‘falli di stampa’. Commovente è quanto Caterina scrive sulla revisione fatta dal Lambruschini della sua novella ‘Pre poco’: ‘io che non sono nata nella felice Toscana a voler dire quello che sentivo con una parola che fosse viva non avevo che il mio nativo dialetto, a questo mi attenni sempre ostinata piuttosto a tacermi che a prendere in prestito libri. Una volta il Lambruschini, che mi voleva bene, si prese la briga di correggere il Prepoco… io… ne piansi e non volli a nessun patto mettere sotto il mio nome’ (BCU, f.p.3995/II, MS1200).

La lingua
Pur amando i Promessi Sposi e conoscendo bene la ‘questione della lingua’, molto dibattuta proprio quando Caterina fa il suo esordio letterario, la Percoto non riuscirà mai ad
adattare il suo modo di scrivere alla lingua toscana, allora proposta come lingua letteraria. Anche quando Paolo Emiliano Giudici, autore di una Storia delle belle lettere in Italia, descrive la sua
dizione ‘impropria, non scevra da qualche solecismo e da idiotismi di lassù tradotti a desinenze toscane’, l’autrice accetta con garbo il commento anche se questo rafforza in lei la convinzione che solamente attraverso uno stile originale e non imbrigliato da regole e vocaboli selezionati si può dare vita a idee e spunti assolutamente inediti. E’ importante sottolineare che Caterina fece approfonditi studi linguistici per cercare strumenti più ‘corretti’ per i suoi scritti: molto interessante, a questo riguardo, è un suo lavoro di comparazione tra alcuni proverbi friulani e
locuzioni toscane corrispondenti senza dimenticare la sua biblioteca, ricca di autori toscani. Tuttavia, nel lasciar ‘correre la penna’, Caterina non riesce a evitare espressioni improprie e a volte anche grammaticalmente sbagliate, forme desuete o modi di dire tratti direttamente dalla lingua parlata. Ben conosciute da tutti i suoi studiosi sono le famose doppie come in borra (invece che bora), mumia (invece di mummia) e soffisticato (invece di sofisticato) anche se a darle manforte, e prova di quanto ai tempi la dizione non fosse cosa certa, vengono il carcioffo di Leopardi e cattarro di Foscolo. Il risultato, comunque, dà vita ad una lingua viva e presente, attuale, che non dovendo sottostare a regole strette permette all’autrice di ‘parlare’ con i suoi lettori e coinvolgerli con le sue storie e le sue splendide descrizioni. Un episodio interessante per capire la posizione della Percoto sulla lingua riguarda i mesi che precedono la liberazione di parte del Friuli dall’Austria: in quei giorni, diversi soldati italiani si accampano per aspettare ordini nei prati di Soleschiano. Caterina, ovviamente, non resiste alla tentazione di scambiare due parole con loro e nel miscuglio delle varie parlate, lentamente si convince di quanto questo diverrà il nucleo vivo della futura lingua unitaria, contrariamente a quanto desiderato dai linguisti toscani: ‘a me invece sentire questo miscuglio di dialetti fa bene, mi rende felice, ci vedo un embrione di quella nuova lingua fusa che sarà per l’Italia dell’avvenire la sola moneta corrente’ (lettera di Caterina Percoto a Marina Baroni).

Il verismo percotiano: ‘Un episodio dell’anno della fame’ è una novella ambientata a Manzinello, un paese che si trova a pochi passi da Soleschiano. Per rendere la storia ancora più vera, l’autrice
la colloca in un periodo di tempo definito, il 1816, anno famoso per la rigidità dell’inverno, per le diverse malattie accorse al raccolto e per le ‘guerre antecedenti’ che avevano portato povertà
soprattutto nelle classi più umili. Particolarmente forte è la figura di Pietro, un povero bracciante che si trova a dover mantenere, con niente, la sua famiglia (‘nudrivansi di radici di erbe selvatiche
raccolte nei prati, e, se veniva lor fatto di trovare in qualche recesso una covata di piantaggine ancor verde, lo avevano per fortuna, e se la mangiavano allessata così senza sale e senza
condimento di sorta. Macinavano i torsi del cinquantino, e quella sterile e scheggiosa farina mescevano a poche prese di buona, e ne facevano un arido pane insalubre’ pag. 141). La
situazione è tale che l’uomo decide di andare una notte a rubare i pali di legno delle viti, così da poter riscaldare la moglie e la madre ammalata. Oltre alla dinamicità della scena (il padrone del
campo, infatti, si accorge di Pietro e riesce a colpirlo con un bastone), l’ansia e la paura del protagonista si può toccare con mano in un particolare interessante: Pietro, nella fuga, perde il
cappello senza il quale gli sarebbe stato impossibile presentarsi in chiesa il giorno seguente. La paura di essere scoperto, di inimicarsi la comunità, di venir additato come ladro diventano allora i
sentimenti principali tanto da farlo tornare, terrorizzato, sul luogo del ‘delitto’ a scapito della sua stessa vita.

Una biografia: La novella ‘Pre Poco’ prende spunto dalla storia di un prete che realmente portò il suo servizio per quasi cinquant’anni presso la chiesa di San Lorenzo di Soleschiano. L’appellativo
‘pre poco’ era stato dato dal paese che, nel suo comportamento remissivo e nel suo vivere in estrema povertà, vedeva in lui una persona povera d’ingegno. La novella è un vero gioiello
letterario

Quando si dice ‘originale’: nei suoi racconti, Caterina inserisce personaggi e situazioni decisamente originali rispetto a quelli proposti dalla letteratura del tempo. Come abbiamo visto,
l’autrice sarà la prima a far comparire in una novella una donna divorziata e capace di rifarsi una vita piena e appagante al di fuori del matrimonio per non parlare delle suore, ben contente di
dividere il loro monastero con i soldati francesi o di prendere il velo per dimenticare un amore infelice. Unica, tra questi esempi, è però la figura della vecchia donna ne ‘La donna di Osopo’.
Nella letteratura del tempo, i ‘vecchi’ erano sempre descritti come i tenutari del sapere e della cultura, dei valori eterni che guidavano la società. Qui, invece, presa dalla fame dopo giorni di
assedio del paese, la vecchia donna mangia le mele che la madre, scappata di notte per andare a cercare il cibo per i suoi figli, le aveva dato per sfamare i suoi piccoli il giorno successivo. Ma non solo: oltre alla descrizione delle mascelle della donna che si agitano nella foga di poter finalmente mordere del cibo, la Percoto mostra la donna capace addirittura di giustificare a se stessa il suo gesto. I giovani sono sempre capaci di trovare quello che vogliono: i vecchi, invece, li si lascia anche morire di fame perché tanto non interessano a nessuno. Seguendo queste parole, la donna letteralmente ‘sbrana’ tutte le quattro mele ma il giorno dopo non si degna nemmeno di andare dai bambini lasciati soli a casa, come promesso alla loro madre.

> Letture per il tema Caterina Percoto racconta il suo tempo

Tratto da ‘Corrispondenza’, La Favilla, 28 aprile 1839, p. 154
(Ho scritto) non per pretesa di figurare in pieno giorno, non per fare una prodezza come scortesemente si esprime il sig. G, ma perché all’articolo con cui nella Favilla N.8 ci donaste i versi che presi ad esame sta per frontespizio: L’ultima cena. Frammenti del Messia di Klopstock – traduzione del cav. Andrea Muffei (sic). Mi parve quella una brutta macchia tanto al poema dell’illustre Alemanno come al nome del nostro poeta, e per quanto io poteva sorsi a difenderli entrambi (…). Potrei dolermi che nel pubblicare la mia lettera non si abbia fatt’uso della migliore esattezza (…). Potrei difendermi dal ridicolo che mi gittate addosso colla noterella sui becchini, mentre ch’io mi sappia, noi non abbiamo altro più nobile vocabolo da poter rendere il Todtengraber dei tedeschi, e trattandosi di una prosa di cui lo scopo era farsi intendere, non mi parve necessario l’infiorarla con una inutile circonlocuzione. Potrei… ma non v’è per si poche parole più oltre contendere. Il sig. G con quella protesta: Né il cav. Maffei ha dato, né noi abbiamo stampato nella Favilla quegli alquanti suoi versi come saggio di traduzione, si è già solennemente ritrattato, ed io ben di cuore gli perdono l’ingiustizia e la poca gentilezza dei suoi modi.

Dalla novella ‘La donna di Osopo’ (pagina 385/386)
Le due donne si salutarono, e la povera madre rasente il muro fuggiva via silenziosa come un’ombra cercando i luoghi più tenebrosi. L’altra coi gomiti alla finestra e colla testa fra le mani
stette ancora un pezzo a riguardarla. Il lume della luna in quel momento la rischiarava, e quella faccia macilente, quelle forme biancastre e puntite che si disegnavano su d’un quadrato di
tenebre, come su d’un panno mortuario, avevano un non so che di sinistro. Pareva l’abbreviatura della morte, così come sogliono figurarla sui catafalchi: un cranio e due ossa in croce. Erano più
giorni che la fame macerava quel povero scheletro vivente. Ora la fragranza dei pomi lo aveva come rianimato. Appena udito il tonfo della loro caduta sul pavimento, la sua mano scarna come
un uncino corse ad afferrarli, e per una specie d’istinto se li appressò subito alle labbra. Poi mormorava: – Uno, due, tre, quattro pomi! Gli è un bel dire, ella ha ancora dei pomi pe’ suoi
bambocci! Chi può averglieli dati? Eh mio Dio! Quando si è giovani si trova compassione; ma io potrei picchiare a tutte le porte del villaggio che non buscherei neppure una presa di farina.
Direbbero che ho vissuto abbastanza… Sono già più giorni che nessuno dà niente! Oh mio Dio! La fame…! La fame!… gli è un cane che latra nello stomaco… – Ed appoggiò sulla frutta le labbra
inaridite. Assaporava in una specie di estasi il loro profumo… Tutto ad un tratto, come se fosse innebirata, come se le fosse svanita la mente e più in lei non potesse che il solo istinto animale, si
mise a rosicchiarli. Dimenava le mascelle con una specie di furore, né ristette finché non se li ebbe affatto ingoiati.

Dalla novella ‘Un episodio dell’anno della fame’ (pagina 139/140)
Era una bella notte stellata, ma un freddo così vivo che rodeva le viscere. Il vento s’era quetato, ma invece spirava di quel fino fino che taglia le orecchie e penetra sotto le unghie; la luna non
ancora spuntata; tutta in silenzio la campagna. Ei si diresse verso un campo, dov’erano di molte viti giovani appoggiate a dei pali. Prima di mettersi all’opera, posò il cappello in un solco; ma
pensando che poteva dimenticarlo, e che trovato servirebbe di spia, lo riprese e lo nascose dietro il tronco d’un vinciglio, poi abbastosi guardava giù pel campo attraverso i filari delle viti; gli parve
che nessuno vi fosse, e slacciava i vimini. Aveva liberato un sette pali quando gli parve udire una pedata; tornò a guardare, e s’accorse di uno che veniva a gran passi lungo la pianta che gli stava di fronte. So pose a correre; allora udì un fischio, e poi un dàlli dàlli, sicchè comprese ch’egli era in fra due; il povero diavolo scappava alla disperata, riuscì a togliersi di via prima che i suoi persecutori lo chiudessero in mezzo, ma inciampò in uno sterpo e cadde boccone: non era appena rialzato, che udì suonare per terra una tale mazzata, che guai! Se lo avesse colto. Intanto che il galantuomo che lo inseguiva si riebbe dallo sforzo fatto nel menargli quel colpo, egli aveva potuto guizzargli di mano e saltato il fosso era sulla via e correva salvo a casa.

Dalla novella ‘Pre poco’ (pagina 76)
Vi sono degli uomini che sanno vivere a seconda degli eventi, che cangiano amici ed opinioni colla stessa facilità con cui si cangia la cmaicia; degli uomini che tengono schiava la fortuna, e che in ogni posto del mondo sanno crearsi un Eden che li circonda di beni; ma ve n’ha anche degli altri, il cuore dei quali una volta piagato non guarisce più mai, e per cui un affetto è come un destino. Il mondo li chiama pazzi. Questa parola toglie di più vederne i patimenti, ed è come la pietra che si getta in bocca al sepolcro e che nasconde il cadavere. Forse il mondo ha ragione, ma mi perdonerà se io li compiango.

Dall’epistolario Caterina Percoto – Francesco Pasqualigo (lettera del 9 gennaio 1883)
…e a proposito di verissimo, Pre-poco è verissimo, non c’è una sillaba che non sia vera. Questo prete io l’ho conosciuto di persona, il suo nome era D.Pietro Saccavini ma nessuno lo chiamava
altrimenti che per il nomignolo che gli aveva affibbiato la gente. Io stessa dopo uscita di convento in piena buona fede gli dissi Pre-poco una volta. Era il dì di San Lorenzo la sagra del mio villaggio e mi trovavo a pranzo in canonica colla mia buona Mamma. Non dimenticherò mai l’espressione di malinconico rimprovero della guardata che per tutta risposta ei mi diede. Capii allora come
nell’improntitudine dei miei pensieri avevo profondamente offeso un’anima che in quel momento mi si rivelò tutta intera in quei grandi occhi limpidi ch’ei teneva di consueto sempre avvoltati e che io non avevo per lo innanzi mai più veduti. Forse fu quello sguardo che due anni dopo la sua morte m’ispirò la pagina che voi leggeste con tanta indulgenza…

Brano tratto dall’epistolario Caterina Percoto – Marina Baroni (agosto 1866, durante la terza
Guerra di Indipendenza)
Ripiglio pe dirti gli orrori di questa occupazione. Qui in casa abbiamo a oggi due compagnie di slovacchi. A noi non usarono finora prepotenze, ma a Soleschiano l’agente del conte Brazzà fu
minacciato da un capitano del reggimento ‘Principe Leopoldo di Toscana’ col revolver.
Requisiscono l’impossibile e nel loro darci il loro sudicio bono di carta, ci dicono che pagherà l’Italia. A Trivignano (soldati) viennesi lordano tutte le stanze… nella canonica dei preti hanno fatto un postribolo. Vengono da paesi infetti dal colera… a Udine, dove c’è Sella, hanno stabilito uno quarantena prima di entrare in città, ma qui non abbiamo governo di sorta… Ho paura Marina mia di non poter far più niente col mio povero ingegno… Lo spavento e l’angoscia di questi giorni mi hanno annichilita… Appoggio i gomiti sul davanzale di una finestra ma ho sotto gli occhi ben altro che al magnifica pineta della tua Viareggio. Vedo invece tre luride compagnie di austriaci. Qui fuori dell’uscio della mia camera vi sta un tenente coi suoi attendenti e tutti nel loro barbaro linguaggio insultano e bestemmiano questa mia povera patria. Il puzzo intollerabile di quella sudicia soldatesca esala dagli assiti mal connessi, e, per non poterlo sopportare, sono già varie notti che dormo con le finestre spalancate. Ad onta dello stato deplorevole della mia salute.

Tratto dalla corrispondenza Caterina Percoto – Carlo Tenca (Aprile 1858)
Ora, giacché nella bontà dell’animo vostro compassionevole, voi vi siete ricordato d’essere il mio amministratore, ecco ch’io vi prego d’ajutarmi. Scrivete per me al Le Monnier, se volesse un altro
volume di cose mie, ma procurate di farmi patti miglior, od almeno che i franchi non vengano cangiati in lire toscane, e chi sa che con questa occasione non vi riesca di riscuotere anche i cento e cinquantacinque franchi, o lire toscane che tuttora mi spetterebbero, stando proprio a quanto avevano patuito ed era un franco alla pagina i miei plenipotenziarj di Torino. Per me sarebbero una risorsa, perché davvero non ho più come tirare innanzi. In uno de’ vostri fogliolini mi avete accennato di mandarmi per la posta le bozze friulane. Niente è capitato. Se durate ancora in quella intenzione, potrei trascrivervi un’altra che riguarda San Giovanni Batista. Vedete, ch’io accetto le vostre proposte , senza esitare, ma voi mi ricordate con tanta amicizia, che mi pare di avere in voi un fratello e mi metto nelle vostre mani senza rossore.

Tratto da ‘Lis strìis di Germanie’
Su la bocie del gran fontanòn, in te’ ploe minudine che comeSu la bocie del gran fontanòn, in te’ ploe minudine che come flôr tamesade ‘e salte in àiar pa l’impeto de l’aghe che ven fûr imbrunide a ròmpisi tai crez, e’ si lavavin la muse e i piedîns, e po’ cun ches lôr manutis fres’cinis e’ si petenavin la cavelade e la fasevin su in rizzòs. Qualchi volte il soreli, plui furbo che tal lôr paîs, jenfri lis crestis de montagne al vignive a cucâlis prime che vessin finît di svuatarâsi, o la ciampane di S.Nicolò ‘e suonave madîns plui a buinore del solit e alore vaiulinz e’ scugnivin tornà indaûr. Ma plui di spes, mitût tal sen un mazzet di violutis rossis, e’ svolavin tal pradissìt de Tencie, in dulà che in gran ligrie e’ jerin za a spietalis lis strìis ciargnelis e chês del Friûl. Su la specule di Càbie, sun che’ montagne verose e rimpinide che ciale parsore Cedarcis, a che fâs cianton tra la Bût e il Ciarsò, si podeve vedelis in comarèz a balà insieme e a bussâsi come tantis sûrs.

Tratto dalla corrispondenza con Gino Capponi (B.N.C.F., MS Gino Capponi, cass. XVIII, n.37,
lettera 7)
…con un nostro friulano Giovanni Gortani che fa assidui studj di lingua cercavo nel nostro dialetto le corrispondenze ai proverbi raccolti dal Giusti e da Lei pubblicati e mi era gioja perseguitare le
voci dalla cima della nostra montagna, dove per una singolarità che merita l’attenzione del dotto suonano più pure e più vicine al Toscano fin giù nelle valli e sul litorale che ce le dà trasformate e
imbarbarite a misura che ci si allontana da quelle vergini regioni.

Tratto dalla corrispondenza con Niccolò Tommaseo (B.N.C.F., MS Tommaseo, cass. 178, lettera
3)
In Carnia e qui, cercai indarno finora qualche traduzione popolare sul Battista. Il popolo è ritroso e interrogato, non risponde: vivendo per altro con lui viene la volta che racconta da se. Così in
Carnia uno ne raccolsi, non del Battista, ma di San Marco…

Pagina aggiornata il 26/02/2025

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